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I poteri del Giudice nella sospensione dal servizio per violazione dell’art. 6 D.Lgs. n. 449/1992
“La determinazione relativa alla entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della pubblica amministrazione datrice di lavoro, che, è insindacabile dal giudice amministrativo, il quale non può sostituire la propria valutazione a quella dell’amministrazione, salvi i casi di abnormità, di travisamento dei fatti e di manifesta, illogica e macroscopica sproporzione”.
A stabilirlo è stato il Consiglio di Stato, Sezione II, con la sentenza n. 7697 del 5 settembre 2022.
La vicenda in esame trae origine quando il ricorrente, un poliziotto penitenziario, proponeva ricorso di primo grado dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale avverso il decreto del Ministero della Giustizia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con cui gli era stata inflitta la sanzione (presofferta) della sospensione dal servizio per sei mesi per violazione dell’ art. 6, lettere a), b) e d), D.Lgs. n. 449/1992, ascritta al periodo che va dal 7 agosto 2007 al 7 febbraio 2008, ed è stata altresì disciplinata la situazione economico amministrativa del medesimo, anche ai fini della restitutio in integrum.
I giudici di prime cure respingevano il proposto gravame, di talché si rendeva necessaria la proposizione dell’appello innanzi al Consiglio di Stato.
L’appellante censurava la sentenza di primo grado laddove il T.A.R. respingeva il primo motivo del ricorso originario inerente all’asserita violazione dell’art. 12 del decreto legislativo n. 449/1992, del diritto di difesa e di partecipazione al procedimento amministrativo, del diritto al contraddittorio, dell’art. 653, comma 1, c.p.p., dei doveri di correttezza, imparzialità e trasparenza della pubblica amministrazione, nonché del principio di proporzionalità.
Segnatamente l’amministrazione avrebbe illegittimamente “utilizzato, quando ha riattivato e riassunto il procedimento disciplinare sospeso, la contestazione degli addebiti del 2011, con la quale si contestavano fatti identici a quelli oggetto di procedimento penale», mentre «i diversi esiti del giudizio penale di secondo grado (…) avrebbero dovuto portare ad una nuova contestazione degli addebiti in linea con le definitive risultanze del processo”.
Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada hanno asserito che la determinazione relativa alla entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della pubblica amministrazione datrice di lavoro, che, è insindacabile dal giudice amministrativo, il quale non può sostituire la propria valutazione a quella dell’amministrazione, salvi i casi di abnormità, di travisamento dei fatti e di manifesta, illogica e macroscopica sproporzione.
Per giurisprudenza consolidata, infatti, “la P.A. dispone di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare in via autonoma la rilevanza disciplinare dei fatti, di tal ché, una volta valutati gli stessi fatti, l’accertamento della proporzionalità della sanzione all’illecito disciplinare contestato e la graduazione della medesima sanzione, risolvendosi in giudizi di merito da parte della P.A., sfuggono al sindacato del giudice amministrativo, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento o la contraddittorietà”[1].
[1] cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 7 giugno 2017, n. 2752; Sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1968; id., 20 settembre 2012, n. 4996)» (Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 31 dicembre 2021, n. 8740