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Il procedimento amministrativo

1. Funzione e nozione

La funzione principale alla quale tende l’attività della pubblica amministrazione è certamente la cura dell’interesse pubblico.

Ebbene, nel porre in essere tale attività la pubblica amministrazione si avvale di moduli procedimentali, i quali soggiacciono alle regole poste dalla legge per garantire lo svolgimento imparziale ed efficace dell’azione amministrativa.

L’imparzialità, in particolare, trova nel procedimento amministrativo la propria ragion d’essere, manifestandosi come quel ventaglio gi interessi pubblici e privati in cui l’amministrazione non può non tener conto ma che, al contrario, deve necessariamente valutare nel perseguire l’interesse pubblico.

Il procedimento amministrativo è spesso inteso in senso lato come forma della funzione amministrativa, quale sede deputata alla ponderazione e valutazione degli interessi compresenti e spesso configgenti.

L’ultima definizione di procedimento alla quale si è pervenuti è quella legata alla disciplina contenuta nella legge n. 241/1990, vale a dire  come luogo nel quale al privato cittadino è assicurata la rappresentazione e la tutela dei propri interessi, segnando, dunque, un passaggio fondamentale rispetto al passato, nel quale al privato non era garantito il necessario e corretto apporto partecipativo.

Tale concezione si è affermata in Italia anche per la positiva influenza del modello statunitense di procedimento amministrativo, nel quale è assicurata l’osservanza delle regole partecipative, affinché l’attività amministrativa possa svolgersi consapevolmente, comparando tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti.

2. Il procedimento amministrativo nella legge 241/1990 e successive modificazioni

Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/1990, salvo talune sporadiche normative di settore, mancava una disciplina generale sul procedimento amministrativo.

Pertanto, alla pubblica amministrazione era riconosciuto un ampio margine di discrezionalità nella conclusione del procedimento non essendo accordata alcun tipo di tutela ai soggetti coinvolti.

Con la legge n.241/1990 il suddetto vuoto normativo è stato colmato con il varo di una disciplina generale sul procedimento, contenente un’intera Sezione dedicata alla partecipazione procedimentale.

Anche in sede legislativa è, dunque, maturata l’idea di un passaggio da un modello in cui la pubblica amministrazione aveva facoltà di assumere decisioni in via unilaterale e senza diritto di replica ad uno in cui ai privati fosse accordata un maggior diritto partecipativo.

Il principio della partecipazione soffre eccezioni nelle sole ipotesi previste dall’art. 13 della legge n.241/1990.

É, in particolare, esclusa l’applicazione delle regole partecipative per i procedimenti destinati a concludersi con provvedimenti di carattere generale, in specie quelli diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e programmazione .

Occorre considerare, inoltre, che la legge n. 241/1990 ha inteso coniugare con il più generale principio di trasparenza e quello dell’efficienza, improntando l’azione amministrativa a canoni di carattere manageriale che assicurino il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Principio, quello dell’efficienza, espressamente enunciato dall’art. 1 della legge n. 241/1990, di cui costituisce tra l’altro espressione il divieto di aggravamento del procedimento amministrativo, previsto dal successivo comma della suddetta norma.

Questo modello aziendalistico ed imprenditoriale, cui l’azione della pubblica amministrazione dovrebbe conformarsi, risulta accentuato dalle modifiche e dalle integrazioni intervenute nel corso degli ultimi anni, in forza delle quali, nell’ambito della propria attività, tesa alla cura del pubblico interesse, le pubbliche amministrazione possono utilizzare e servirsi anche di strumenti di diritto privato .

3.  Il procedimento amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione

A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione ex legge n.3 del 2001, che ha dettato un nuovo assetto nei rapporti tra Stato e Regioni, ci si è chiesti se rientri ancora nelle attribuzioni legislative dello Stato l’elaborazione di una disciplina generale del procedimento amministrativo.

Nello specifico, ci si è posti la domanda se la disciplina statale del procedimento amministrativo possa estendere il suo raggio di operatività anche ai procedimenti amministrativi gestiti dagli enti locali.

Tale problema interpretativo si è posto in considerazione dell’assenza di alcun riferimento al procedimento amministrativo tanto nell’elenco tassativo delle materie attribuite dal riscritto art. 117 comma della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, quanto in quello delle materie che il successivo comma 3 affida alla potestà legislativa concorrente.

In modo più accentuato la questione si è posta nel 2005 e nel 2009, quando con le leggi nn. 15, 80 e 69, il legislatore statale è intervenuto a modificare la disciplina generale del procedimento amministrativo .

Per vero, di tale problema il legislatore del 2005 e del 2009 si è fatto espressamente carico riformulando l’art. 29 della legge sul procedimento amministrativo.

Tuttavia, giova anteporre all’esame delle modifiche apportate una sintetica ricostruzione dei principali ritocchi legislativi intervenuti sul’art. 29 della legge n.241 del 1990 e dei principali problemi applicativi che gli stessi hanno posto.

Nel testo originario, il suddetto articolo 29, relativamente all’applicazione alle regioni, si limitava a definire “principi generali dell’ordinamento giuridico le materie disciplinate dalla medesima legge”, sancendone la diretta operatività “nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia”.

Le norme statali di carattere generale venivano qualificate come principi a cui la legislazione regionale doveva conformarsi, assumendo la funzione di norme suppletive fino a quando le regioni non avessero adottato regole specifiche.

Nell’ottica di tale riforma costituzionale del 2001, si è avvertita l’esigenza di assoggettare l’azione amministrativa a regole comuni su tutto il territorio nazionale, mediante nuovi interventi legislativi.

In tal senso, dirimente importanza hanno assunto dapprima la riforma del 2005 e soprattutto quella del 2009.

Lo scopo di tali riforme è stato quello di individuare specificamente quali disposizioni sull’azione amministrativa devono essere applicate a tutte le amministrazioni pubbliche.

Nel dettaglio, nell’individuare le norme sull’azione amministrativa, considerate vincolanti anche oltre l’ambito delle amministrazioni statali, il legislatore del 2009 utilizza una doppia tecnica.

Da un lato indica norme direttamente applicabili a tutte le amministrazioni pubblichi e dall’altro individua le norme qualificabili quali livelli essenziali delle prestazioni, ai fini dell’applicabilità diretta anche da parte di regioni ed enti locali.

Emerge, quindi, in maniera del tutto evidente che gran parte delle disposizioni sono vincolanti anche oltre l’ambito strettamente statale, a riprova del fatto che la menzionata legge sul procedimento reca i principi generali sull’azione amministrativa.

4.  Le fasi del procedimento amministrativo

Passando ora ad un’analisi dettagliata del procedimento amministrativo è possibile asserire che quest’ultimo si compone di quattro fasi: la fase dell’iniziativa, la fase istruttoria, la fase decisoria, e la fase dell’integrazione dell’efficacia.

La fase dell’iniziativa è quell’arco temporale che da propulsione al procedimento. Quest’ultimo, infatti, può essere instaurato con un atto dell’interessato, come avviene nei procedimenti ad iniziativa di parte, ovvero su impulso della stessa amministrazione procedente: è il caso dei procedimenti ad iniziativa d’ufficio.

La distinzione assume diversi connotati in relazione, in particolare, al c.d. preavviso di rigetto.

Il privato, infatti, può sollecitare l’avvio del procedimento mediante un’istanza o un ricorso, volta ad ottenere l’adozione di un provvedimento favorevole.

In tale situazione, in caso di rigetto da parte dell’amministrazione, quest’ultima, salvo rare eccezioni, è tenuta a comunicare allo stesso le ragioni ostative all’accoglimento della domanda, inteso come provvedimento avente natura predecisoria.

Quanto all’iniziativa d’ufficio, la stessa definita autonoma quando è l’organo competente all’emissione del provvedimento conclusivo che dà avvio al procedimento, è invece eteronoma quando l’iniziativa promana da un organo diverso da quello competente ad emettere il provvedimento finale.

Ebbene, sia in caso di iniziativa ad istanza di parte che d’ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso .

Dall’avvio del procedimento su istanza di parte o d’ufficio discende, dunque, per l’amministrazione il c.d. obbligo di provvedere, concludendo l’iter procedimentale con un provvedimento espresso.

La legge n. 241/1990 ha, inoltre, prescritto che il procedimento debba necessariamente concludersi entro un termine ben preciso.

Quanto alle modalità del computo del termine, trova applicazione la disciplina generale secondo cui i termini vanno calcolati secondo il calendario comune, non computando il giorno iniziale ma quello finale, fermo restando che se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo .

Sul punto, si è pronunciata anche la prima sezione del T.A.R Veneto, nella nota sentenza n. 628 del 2007 asserendo che “Come è ben noto, l’art. 2963 cod. civ. reca una regola generale del nostro ordinamento, secondo la quale i termini temporali si calcolano nell’osservanza del calendario comune, non computando il giorno iniziale  ma quello finale (“dies a quo non computatur” (…) “dies ad quem computatur”), fermo restando che se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.”

Tale regola generale non sembra, però, trovare applicazione per il termine di pubblicazione di un atto amministrativo.

A tale considerazione è pervenuto  il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in quanto la disposizione di cui all’art. 155 c.p.c. concerne solo i termini relativi al compimento di atti processuali, quali non sono quelli di pubblicazione all’albo pretorio degli atti amministrativi .

Tuttavia, è necessario ricordare che la legge n.80 del 15 maggio del 2005, modificando l’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo, ha introdotto una nuova ed ulteriore disciplina relativa al termine di conclusione del procedimento.

Nello specifico la novella normativa prevede che i termini dei procedimenti amministrativi, ove non direttamente previsti per legge, devono essere stabiliti con regolamento adottato ai sensi dell’art. 17 della legge n. 400 del 23 agosto del 1988, su proposta del Ministero competente, di concerto con il Ministro per la Funzione Pubblica, e non già dalle singole amministrazioni interessate, come previsto inizialmente .

Tale previsione riguarda soltanto le amministrazioni statali, gli enti pubblici nazionali potendo stabilire, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali i procedimenti di propria competenza devono necessariamente concludersi.

Orbene, per la fissazione degli stessi, questi devono essere modulati tenendo conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte .

Ulteriore innovazione, introdotta con la riforma n. 80 del 2005, riguarda la possibilità di sospendere, in particolare circostanza previste dalla legge, i termini per provvedere.

La prima ipotesi è quella in cui leggi e regolamenti prevedono per l’adozione di un provvedimento l’acquisizione di valutazioni tecniche di organi appositi: in questa particolare casistica i termini possono essere sospesi fino all’acquisizione delle valutazioni tecniche e, comunque, per un periodo massimo non superiore ai novanta giorni.

L’altra ipotesi di sospensione dei termini risponde, invece, all’esigenza di acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati, o quali attestati in documenti che non siano già in possesso dell’amministrazione o non direttamente acquisibile da altre pubbliche amministrazioni.

In tal caso, i termini possono essere sospesi, per una sola volta e senza un limite di tempo massimo.

In seguito, una volta avviato il procedimento questo prosegue con la fase istruttoria, all’interno della quale l’amministrazione effettua una ricerca di tutti gli interessi coinvolti, ponderandoli ed acquisendo tutti i fatti rilevanti ai fini della decisione.

Rilevante importanza, in tale fase, la assume il responsabile del procedimento ponendo in essere tutte le operazioni necessarie ai fini dell’emanazione del provvedimento finale .

E’ proprio in tale fase che emerge la funzione principale per la quale è stato introdotto il procedimento amministrativo: garantire un apporto partecipativo e collaborativo da parte degli interessati.

Partecipazione destinata ad investire le stesse modalità con cui l’amministrazione deve procedere all’accertamento dei fatti e alla ponderazione degli interessi rilevanti per l’attuazione del potere .

La stessa legge sul procedimento amministrativo, all’art. 9, riconosce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché ai portatori di interessi diffusi.

Il legislatore del 1990 ha poi riconosciuto alle parti poteri istruttori particolarmente rilevanti, nel tentativo di evitare che il principio della partecipazione procedimentale restasse inapplicato.

Così, l’art. 10 della legge n.241/1990 rubricato “diritti dei partecipanti al procedimento”, prevede il diritto di prendere visione degli atti del procedimento, di presentare memorie scritte e documenti.

Nella medesima disposizione è, inoltre, previsto l’obbligo da parte dell’amministrazione di valutare il materiale istruttorio depositato dalle parti, qualora questo risulti pertinente all’oggetto del procedimento.

Da quanto detto ne discende che la fase istruttoria è permeata da quel carattere di trasparenza e imparzialità che regola l’attività della pubblica amministrazione garantendo, dunque, al privato cittadino un giusto apporto partecipativo ai fini della determinazione finale.

Tuttavia, l’attività istruttoria può in alcuni casi essere demandata ad appositi uffici o organi, diversi da quello competente ad emanare il provvedimento, dotati di una specifica preparazione e competenza tecnica.

Prende, dunque, avvio una sorta di sub-procedimento normalmente destinato a concludersi con l’emanazione di un parere.

Tale sub fase deve rispettare il c.d. principio di non aggravamento del procedimento, consentendo all’amministrazione di procedere indipendentemente  dall’acquisizione del parere, nel caso in cui lo stesso non sia reso entro il termine prestabilito o senza che vengano rispettate le esigenze istruttorie

Al termine della fase istruttoria si apre, poi, la fase decisoria, cui appartiene la deliberazione del contenuto del provvedimento e la formazione ed emanazione dello stesso.

In questa fase l’autorità competente effettua una nuova ed ulteriore valutazione dei presupposti e degli elementi di fatto alla base dell’atto.

In tale fase, la competenza ad adottare il provvedimento finale spetta in via esclusiva ai dirigenti, benché dominus della fase istruttoria sia il responsabile del procedimento, salvo che questi non venga investito del relativo potere con apposito atto.

Il provvedimento, una volta, emanato, è perfetto, cioè completo di tutti gli elementi richiesti per la sua esistenza, ma può non essere ancora efficace. La produzione dell’efficacia può essere, infatti, subordinata al compimento di operazioni specifiche, al verificarsi di certi fatti o all’emanazione di ulteriori atti.

Talvolta, però, il provvedimento ha natura recettizia, producendo effetti solo dal momento in cui è portato a conoscenza del destinatario, mediante comunicazione o pubblicazione.

Si apre così la fase dell’integrazione dell’efficacia, all’interno della quale alcuni atti per divenire efficaci vengono sottoposti ad un preventivo controllo.

La fase di integrazione dell’efficacia può, a sua volta, ricomprendere a due sottofasi: quella di controllo, nella quale se il controllo ha esito positivo l’atto già perfetto diviene efficace e perciò esecutivo. E quella di comunicazione finalizzata a portare a conoscenza l’atto al destinatario .

In tal caso, la comunicazione e la pubblicazione non hanno natura e funzione meramente partecipativa, essendo elementi costitutivi della fattispecie.

Infine, giova rilevare che nel procedimento amministrativo vige il principio del tempus regit actum secondo cui le eventuali modifiche legislative si applicheranno solo ai procedimenti in corso e mai a quelli già conclusi.

In particolare, ogni atto del procedimento amministrativo è regolato dalla disciplina vigente al momento della sua adozione, sicché, la nuova disciplina potrà applicarsi solo per gli atti ancora da adottare.

Il principio, che trova la sua base giuridica nell’art.11 delle disposizione preliminari del codice civile, comporta che gli atti e provvedimenti amministrativi devono essere disciplinati dalla legge vigente al momento della loro emanazione.

In tal senso, granitico orientamento giurisprudenziale ha stabilito che “La corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l’amministrazione debba tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l’iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l’assetto cristallizzato una volta per tutte alla data dell’atto che vi ha dato avvio. Conseguentemente, la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento ad istanza di parte va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale e non a quello della presentazione dell’istanza”.

Inoltre, altra autorevole giurisprudenza ha chiarito che il principio del tempus regit actum esplica la propria efficacia allorchè, il rapporto con cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento .

In particolare, il principio sopra illustrato trova applicazione non soltanto con riferimento al provvedimento che conclude la serie procedimentale, ma anche con riguardo agli atti che definiscono le singole fasi del procedimento, suscettibili di produrre effetti esterni o di costruire presupposti di ulteriori provvedimenti .

Pertanto, in forza del principio in questione, ogni atto della serie procedimentale troverà la sua disciplina nelle norme vigenti al tempo della sua adozione.

Giova ora valutare le implicazioni derivanti dal suddetto principio.

In primo luogo può verificarsi che la nuova disciplina intervenga quando è in corso la fase preparatoria, nella quale sono adottati atti che hanno la funzione di determinare la situazione giuridica necessaria a che l’atto conclusivo del procedimento, che li presuppone, possa legittimamente venire in vita.

In relazione a tale prima ipotesi, occorre distinguere a seconda che le nuove norme modifichino il regime dei caratteri strutturali e dei requisiti di atti preparatori già adottati ovvero finiscano per incidere sulla loro stessa necessità.

Orbene, nel primo caso l’atto conserva la sua validità ed efficacia.

Diverso è il caso della norma che incide sulla necessità o meno dell’atto preparatorio. Attesa la funzione propria degli atti preparatori, occorre, nel verificarne la necessità, avere riguardo al momento in cui il provvedimento finale si perfezioni.

Quella della sua adozione è, infatti, il momento in cui devono esistere tutte le condizioni individuate dall’ordinamento perché lo stesso possa essere considerato legittimo.

Tale conclusione si applica sia ai casi in cui la legge nuova richieda atti preparatori prima non ritenuti necessari e sia ai casi in cui la stessa preveda atti diversi da quelli prima richiesti.

Tali conclusioni valgono anche per l’ipotesi in cui la nuova legge escluda la necessità di un atto preparatorio prima richiesto. Qualora, l’atto preparatorio fosse viziato, l’eventuale vizio non sarebbe comunque idoneo a determinare l’invalidità derivata del provvedimento finale, quest’ultimo essendo venuto in essere nella vigenza di una norma che non richiede più l’atto preparatorio .

Può, altresì, verificarsi che la nuova disposizione intervenga  quando in corso la fase costitutiva disciplinando diversamente atti della serie procedimentale ormai realizzati.

Occorre, al riguardo, considerare che il provvedimento si perfeziona quando la fase costitutiva è pervenuta alla sua conclusione, vale a dire nel momento in cui tutti gli elementi costitutivi sono intervenuti.

E’ proprio in tale momento che occorre fare riferimento per individuare gli elementi necessari per l’adozione dell’atto conclusivo del procedimento.

Ne discende che se una legge sopravvenuta modifichi gli elementi necessari per l’adozione del provvedimento lo stesso va adottato nel rispetto della norma sopravvenuta .

La nuova disposizione può infine sopravvenire quando è in corso la fase integrativa dell’efficacia.

Il primo caso è quello della norma che, in questa fase, intervenga a modificare gli elementi costitutivi della fattispecie.

Ebbene, al verificarsi di tale evenienza la norma sopravvenuta non può esplicare alcun effetto essendosi già perfezionata la fase costitutiva.

Qualora invece la nuova norma, intervenuta durante la fase integrativa dell’efficacia, incide proprio sul regime degli atti di questa fase non richiedendo più alcun un elemento di efficacia prima ritenuto necessario, la stessa non trova applicazione.

Se, di contro, la nuova disposizione normativa richieda un elemento di efficacia prima non ritenuto necessario, tale nuovo elemento dovrà ora necessariamente intervenire perché il provvedimento possa esplicare i suoi effetti.

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